chi ha cancellato le domande

Chi ha cancellato le domande?

Viviamo in un tempo in cui si parla tanto. Tutti commentano, tutti reagiscono, tutti prendono posizione. Ma quante volte, davvero, riusciamo a comprendere?

Il pluralismo, pilastro della democrazia e della libertà, sembra oggi confondersi con un chiacchiericcio continuo, una ridondanza di voci che dicono le stesse cose, con toni diversi, ma dentro schemi già stabiliti. Una società che confonde il numero delle opinioni con la profondità delle domande rischia di perdere l’anima critica. E quando una società smette di farsi domande autentiche, smette anche di crescere.

La civiltà del commento è la civiltà dell’immediatezza, della reazione. Una notizia diventa occasione per schierarsi, un’opinione per giudicare, una voce per sovrastarne un’altra. Ma tutto ciò accade dentro una cornice già definita, che nessuno mette più in discussione. Come se esistesse un perimetro invisibile, oltre il quale le domande non possono più uscire.

Al contrario, la civiltà della critica non si accontenta di prendere posizione: apre spazi nuovi, crea altri modi di guardare il reale. Non si limita a reagire, ma genera. E sa riconoscere ciò che manca, ciò che ancora non è stato detto.

Essere davvero liberi non significa solo poter esprimere un’opinione, ma poter decidere quali domande porre. È libertà non poter più usare certe parole? È libertà dover aderire incondizionatamente al politicamente corretto? È libertà non poter più dire di no, senza rischiare per questo la propria vita? È libertà se un uomo arriva a uccidere una donna solo perché non sa accettare la fine di una storia? È libertà accettare ogni agenda imposta, senza discuterne i fondamenti?

La vera libertà è saper coltivare il dubbio, disattivare gli automatismi, sospendere il giudizio immediato. È poter porre domande anche scomode, anche impopolari. La democrazia è viva solo quando si nutre di questa capacità collettiva di ridefinire l’agenda, di spostare il fuoco dell’attenzione, di riformulare le priorità. E questa è una responsabilità che interpella ciascuno di noi.

Ma perché tutto questo è così difficile oggi?

Perché esiste una struttura economica dell’informazione che premia la ripetizione, non la novità. Perché esistono codici mentali arcaici, evolutivamente programmati per riconoscere solo ciò che conforta, rassicura, polarizza. Perché esiste una convergenza invisibile che porta anche le voci più indipendenti a parlare degli stessi temi, con gli stessi toni, inseguendo metriche, clic, attenzione.

E così, lentamente, si perde la capacità di vedere oltre. Di interrogarsi sul senso delle cose. Di accogliere il pluralismo come esercizio faticoso, ma vitale. Perché il pluralismo vero non è tolleranza passiva. È possibilità di trasformazione.

La voce che METIS sceglie di portare non vuole confondersi nel coro. Non è un commento in più, è un invito sommesso ma deciso a tornare a pensare. A guardare con occhi nuovi, a rimettere al centro ciò che conta davvero: le domande autentiche, quelle che spalancano prospettive.

Domande scomode, domande irregolari. Quelle che nessun algoritmo premia, ma che rappresentano il fondamento stesso della nostra evoluzione come società. Perché solo una comunità capace di farsi buone domande è una comunità capace di costruire soluzioni, visioni, orizzonti condivisi. Il pluralismo critico non è un lusso intellettuale: è l’infrastruttura strategica che ci permette di leggere la complessità, anticipare i rischi, progettare il futuro. Senza pluralismo, non c’è innovazione. Senza innovazione, non c’è strategia. Senza strategia, restiamo vittime del rumore.

Perché è solo lì, nel punto in cui nasce una nuova domanda, che comincia il vero cammino verso la libertà. E verso una strategia che non si limita a rispondere, ma che genera futuro.

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Nicola Parrinello

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